Musei civici Reggio, no al museo-spettacolo
di docenti, critici d'arte e artisti
Dopo anni di annunci sporadici su giornali o televisioni locali in mancanza fino ad ora di una chiara e organica presentazione alla città, finalmente un articolo di Elisabetta Farioli, direttrice dei musei civici (“Taccuini d’arte”, 5), illustra pensiero e forme del progetto di Italo Rota per il “nuovo” Museo di Palazzo S. Francesco. Per la verità anche in questo caso non si entra tanto nel dettaglio, ma si coglie bene lo spirito dell’intervento.
Il testo è inoltre corredato da immagini che descrivono l’aspetto di alcuni ambienti e che si possono integrare con i rendering presenti anche sul sito web dell’architetto. Alcuni di essi - come quello in cui una moquette (?) con giungla, scimpanzé ed elefantino corre lungo il corridoio in cui è disposta la collezione settecentesca di Lazzaro Spallanzani - sollevano dubbi circa le finalità, ma anche la sostanza, dei lavori previsti.
Che obiettivi si propone il riallestimento di alcune sale, così come illustrato dalle immagini fino ad ora rese disponibili?. Quale valore aggiunge al museo e quali costi comporta per la comunità (si parla di oltre 4 milioni di euro)? Quanto ci si è confrontati con i fruitori del museo, che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di eventuali azioni di modernizzazione dello stesso? E ancora quando e quanto il progetto è stato condiviso con la cittadinanza?
Tutti siamo d’accordo sul concetto di patrimonio storico-artistico e di museo come “eredità vivente” (citando l’articolo di Farioli), ma occorre poi vedere come concretamente vengono declinate idee pur condivisibili in astratto. Chi può non applaudire l’idea di un “approccio che parte dall’oggi, dai problemi della contemporaneità e intende leggere nelle testimonianze del passato possibili stimoli a una lettura del presente in vista di future possibili visioni del mondo” (Farioli)? Sono frasi ottime per qualsivoglia allestimento, che solo rinnovi un po’ le cose. Il punto è: in quale direzione?.
Soluzioni come quella appena citata sono in realtà emergenze di una visione che l’architetto applica anche in altri ambienti, quella cioè di un museo-spettacolo. Idea ben comprensibile dove si stia progettando un museo nuovo, da applicare invece con cautela dove un’istituzione esiste già; un’istituzione storica, nata nell’Ottocento grazie all’impegno di più studiosi, alcuni dei quali di risonanza internazionale, come Gaetano Chierici. Alquanto fumosi risultano poi i benefici che dovrebbero derivare dal progetto Rota, laddove si legge che esso “tocca anche da vicino il tema dei confini, sempre più incerti, tra il ruolo dell’architetto e il ruolo del direttore o responsabile del museo, in una visione nuova in cui l’ambito della museografia e quello della museologia tendono a confondersi, o meglio a presupporsi a vicenda, in una sempre più avvertita esigenza della molteplicità di competenze necessarie alla vita di una moderna istituzione museale e del complesso quadro di relazioni che ne presiede la conduzione” (Farioli).
In realtà, nel dibattito museografico e museologico attuale - quello più serio ed aggiornato perlomeno - la preoccupazione cui Farioli si riferisce va di pari passo con l'individuazione e la distinzione, il più possibile chiare e rigorose, dei ruoli e delle competenze tra coloro che a vario titolo “fanno” il museo, tanto più se questo, come nel nostro caso, non viene creato ex novo, ma ha una lunga storia alle spalle. In altre parole: una cosa è aderire a concetti quali interdisciplinarietà, collegialità, reciprocità. Tutt'altra cosa è far passare l'idea, arbitraria e ingiustificata, che la sovrapposizione e addirittura la confusione tra competenze professionali diverse - fortunatamente diverse, aggiungiamo noi - siano il prezzo da pagare al rinnovamento del museo, anzi, alla sopravvivenza dell'idea stessa di museo.
A queste considerazioni - e a questo punto si tocca inevitabilmente il tema dei tagli - si deve infine aggiungere una doverosa riflessione sull’attuale congiuntura economica. È più che giusto investire in cultura e quindi anche nel museo, ma, in un momento come questo in cui anche a Reggio Emilia si acuiscono i segni della crisi, ci chiediamo se sia opportuno investire cifre consistenti in operazioni che - anche al di là dei giudizi di valore - costituiscono una sorta di maquillage esteriore.
Per farsi un’idea di quanto viene proposto, basterà soffermarsi con attenzione sul rendering che ritrae l’esterno del museo (visibile anche nei totem che illustrano gli interventi del Comune). Esso prevede un ingresso con giardino verticale (operazione già vista e con alti costi di manutenzione) e “alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei”. Va fatto notare che questi “funghi” verticali sono già stati realizzati nel 2007 da Rota nella sua sistemazione della chiesa di Sant'Elena a Palermo. Non ci sembra che il complesso di San Francesco e i civici musei meritino copia-incolla come questi. Ma anche ammesso che si tratti del modo migliore per prolungare nel presente la “vitalità eterna del passato” (Farioli), ci domandiamo se questo sia il momento giusto per farlo, riducendo i finanziamenti ad altri aspetti della vita culturale della città.
La preghiamo allora, signor Sindaco, di prendere in considerazione le molte perplessità che il progetto suscita in chi è interessato a esso come cittadino, come semplice fruitore, come studioso, e di riconsiderare complessivamente le scelte compiute finora. La forma e il ruolo del museo civico vanno rinnovati, ma è di un museo-spettacolo che ha bisogno la città? O, piuttosto, di conoscere e comprendere la propria storia anche recente nel suo depositarsi nelle cose e nelle immagini? I musei reggiani oggi lasciano scoperto quasi per intero il secolo scorso. Non è forse ora di pensare a una sezione del museo capace di presentare un quadro organico del Novecento nella nostra città, nei personaggi, nella topografia, negli avvenimenti, nelle manifatture, nei mutamenti culturali?.
Marco Belpoliti
Alfredo Gianolio
Ivan Levrini
Mauro Cremaschi
docenti, artisti e critici d'arte reggiani
Il testo è inoltre corredato da immagini che descrivono l’aspetto di alcuni ambienti e che si possono integrare con i rendering presenti anche sul sito web dell’architetto. Alcuni di essi - come quello in cui una moquette (?) con giungla, scimpanzé ed elefantino corre lungo il corridoio in cui è disposta la collezione settecentesca di Lazzaro Spallanzani - sollevano dubbi circa le finalità, ma anche la sostanza, dei lavori previsti.
Che obiettivi si propone il riallestimento di alcune sale, così come illustrato dalle immagini fino ad ora rese disponibili?. Quale valore aggiunge al museo e quali costi comporta per la comunità (si parla di oltre 4 milioni di euro)? Quanto ci si è confrontati con i fruitori del museo, che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati di eventuali azioni di modernizzazione dello stesso? E ancora quando e quanto il progetto è stato condiviso con la cittadinanza?
Tutti siamo d’accordo sul concetto di patrimonio storico-artistico e di museo come “eredità vivente” (citando l’articolo di Farioli), ma occorre poi vedere come concretamente vengono declinate idee pur condivisibili in astratto. Chi può non applaudire l’idea di un “approccio che parte dall’oggi, dai problemi della contemporaneità e intende leggere nelle testimonianze del passato possibili stimoli a una lettura del presente in vista di future possibili visioni del mondo” (Farioli)? Sono frasi ottime per qualsivoglia allestimento, che solo rinnovi un po’ le cose. Il punto è: in quale direzione?.
Soluzioni come quella appena citata sono in realtà emergenze di una visione che l’architetto applica anche in altri ambienti, quella cioè di un museo-spettacolo. Idea ben comprensibile dove si stia progettando un museo nuovo, da applicare invece con cautela dove un’istituzione esiste già; un’istituzione storica, nata nell’Ottocento grazie all’impegno di più studiosi, alcuni dei quali di risonanza internazionale, come Gaetano Chierici. Alquanto fumosi risultano poi i benefici che dovrebbero derivare dal progetto Rota, laddove si legge che esso “tocca anche da vicino il tema dei confini, sempre più incerti, tra il ruolo dell’architetto e il ruolo del direttore o responsabile del museo, in una visione nuova in cui l’ambito della museografia e quello della museologia tendono a confondersi, o meglio a presupporsi a vicenda, in una sempre più avvertita esigenza della molteplicità di competenze necessarie alla vita di una moderna istituzione museale e del complesso quadro di relazioni che ne presiede la conduzione” (Farioli).
In realtà, nel dibattito museografico e museologico attuale - quello più serio ed aggiornato perlomeno - la preoccupazione cui Farioli si riferisce va di pari passo con l'individuazione e la distinzione, il più possibile chiare e rigorose, dei ruoli e delle competenze tra coloro che a vario titolo “fanno” il museo, tanto più se questo, come nel nostro caso, non viene creato ex novo, ma ha una lunga storia alle spalle. In altre parole: una cosa è aderire a concetti quali interdisciplinarietà, collegialità, reciprocità. Tutt'altra cosa è far passare l'idea, arbitraria e ingiustificata, che la sovrapposizione e addirittura la confusione tra competenze professionali diverse - fortunatamente diverse, aggiungiamo noi - siano il prezzo da pagare al rinnovamento del museo, anzi, alla sopravvivenza dell'idea stessa di museo.
A queste considerazioni - e a questo punto si tocca inevitabilmente il tema dei tagli - si deve infine aggiungere una doverosa riflessione sull’attuale congiuntura economica. È più che giusto investire in cultura e quindi anche nel museo, ma, in un momento come questo in cui anche a Reggio Emilia si acuiscono i segni della crisi, ci chiediamo se sia opportuno investire cifre consistenti in operazioni che - anche al di là dei giudizi di valore - costituiscono una sorta di maquillage esteriore.
Per farsi un’idea di quanto viene proposto, basterà soffermarsi con attenzione sul rendering che ritrae l’esterno del museo (visibile anche nei totem che illustrano gli interventi del Comune). Esso prevede un ingresso con giardino verticale (operazione già vista e con alti costi di manutenzione) e “alte strutture di acciaio specchiante che riflettono immagini tratte dai materiali dei musei”. Va fatto notare che questi “funghi” verticali sono già stati realizzati nel 2007 da Rota nella sua sistemazione della chiesa di Sant'Elena a Palermo. Non ci sembra che il complesso di San Francesco e i civici musei meritino copia-incolla come questi. Ma anche ammesso che si tratti del modo migliore per prolungare nel presente la “vitalità eterna del passato” (Farioli), ci domandiamo se questo sia il momento giusto per farlo, riducendo i finanziamenti ad altri aspetti della vita culturale della città.
La preghiamo allora, signor Sindaco, di prendere in considerazione le molte perplessità che il progetto suscita in chi è interessato a esso come cittadino, come semplice fruitore, come studioso, e di riconsiderare complessivamente le scelte compiute finora. La forma e il ruolo del museo civico vanno rinnovati, ma è di un museo-spettacolo che ha bisogno la città? O, piuttosto, di conoscere e comprendere la propria storia anche recente nel suo depositarsi nelle cose e nelle immagini? I musei reggiani oggi lasciano scoperto quasi per intero il secolo scorso. Non è forse ora di pensare a una sezione del museo capace di presentare un quadro organico del Novecento nella nostra città, nei personaggi, nella topografia, negli avvenimenti, nelle manifatture, nei mutamenti culturali?.
Marco Belpoliti
Alfredo Gianolio
Ivan Levrini
Mauro Cremaschi
docenti, artisti e critici d'arte reggiani